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Fede e mafia: basta ambiguità

Fede e mafia: basta ambiguità


«I mafiosi volevano sconfiggere Padre Pino Puglisi perché sottraeva loro i giovani, ma in realtà è lui che ha vinto. Preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone, non possono fare questo, non possono fare i nostri fratelli schiavi, dobbiamo pregare il Signore, preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio».

Le chiare parole pronunciate da Papa Francesco all'indomani della beatificazione di don Puglisi suggellano due percorsi paralleli: quello della vita e della morte del Beato Puglisi e quello della definitiva e netta presa di distanza della Chiesa da atteggiamenti in passato più sfumati sul delicato equilibrio tra la condanna dei reati e la misericordia per i peccatori, anche quelli mafiosi.
Partiamo da quest'ultimo: sono stati numerosi in passato gli appelli a distinguere la giustizia terrena da quella divina; appelli formulati magari con le migliori intenzioni, ma attraverso cui si è finito per creare un clima di disaffezione ai valori civili, offrendo, se pur indirettamente, una motivazione culturale ed etica a quanti, tra mafiosi e criminali, hanno affermato di volersi o di essersi già pentiti di fronte a Dio ma non di fronte allo Stato. Questo ha suffragato in passato forme di religiosità strumentali, legittimando un'accezione del pentimento intimistica e completamente priva della dimensione della solidarietà e dell'impegno civile. Chi ha avuto modo di esplorare il complesso mondo di Cosa Nostra, ha scoperto con stupore che ogni uomo d'onore – affiliato alla famiglia mafiosa con un rito iniziatico denso di simbologie e rituali cattolici – si professa sincero credente e, spesso, pratica regolarmente la messa e l'eucarestia. Molti studiosi hanno sottolineato che il paradosso della religiosità mafiosa trovi una sua ragionevole spiegazione essenzialmente nell'interpretazione distorta della religiosità da parte degli affiliati all'organizzazione criminale.
Per questo le parole pronunciate nella valle dei templi ad Agrigento da Giovanni Paolo II nel 1993 squarciarono la coltre del silenzio come un tuono: si rivolse apertamente al potere mafioso esprimendo la piena condanna nei riguardi di tale fenomeno criminale in nome dell'uomo e della fede. L'intervento del Papa ebbe grande risonanza: le Sue parole provocarono tra i fedeli commozione e gioia, molti videro un annuncio di liberazione e di ritrovata solidarietà umana nel segno dell'antica fede. Il percorso si conclude definitivamente con le parole pronunciate dal cardinale arcivescovo di Palermo Paolo Romeo nell'Omelia per la beatificazione di don Giuseppe Puglisi: «I mafiosi, che spesso pure si dicono e si mostrano credenti, muovono meccanismi di sopraffazione ed ingiustizia, di rancore, di odio, di violenza, di morte. Il Beato Puglisi servì e amò i fratelli da padre. Fu soprattutto a Brancaccio che trovò bambini e giovani quotidianamente esposti ad una paternità falsa e meschina, quella della mafia del quartiere, che rubava dignità e dava morte in cambio di protezione e sostegno. La sua azione mirò a rendere presente un altro padre, il "Padre Nostro". Secondo lui di "nostro" non può esserci "cosa" che si impone a tutti attraverso un "padrino" onnipresente. Di "nostro" c'è solo Dio che ama tutti dentro e fuori la Chiesa».
Eppure, anche dopo l'appello di Giovanni Paolo II, nella Chiesa siciliana il tema della mafia non era destinato a diventare scelta pastorale dell'intera comunità. L'impegno restava affidato all'iniziativa dei singoli parroci di alcune comunità del volontariato. Nasceva, così, nell'immaginario collettivo la figura del prete antimafia pronto ai gesti eclatanti, alle denunce clamorose. 
Ma noi ricordiamo oggi un altro tipo di sacerdote, espressione di un'altra Chiesa, ignorata dalla stampa, discreta e silenziosa, ispirata a una concezione prettamente pastorale ed evangelica della funzione quale era Padre Pino Puglisi.
Nei quartieri di Palermo, la scelta di vivere da cittadini consapevoli e responsabili è la scelta coraggiosa di confrontarsi con la visibilità del Male, con la sua terribile concretezza, con la sua percepibile potenza. È la scelta di chi – sia esso sacerdote, magistrato, avvocato, commerciante o semplice cittadino – sa che prima o poi sarà chiamato a scegliere se schierarsi con gli assassini, con i loro complici e i loro protettori; o, piuttosto, con gli onesti, con le vittime, con gli inermi e gli indifesi. In entrambi i casi, il prezzo da pagare può essere altissimo. 
Padre Pino Puglisi era, innanzitutto, un prete. Oggi possiamo dirlo con certezza: è stato ucciso a causa del suo impegno evangelico, sociale e pastorale, a causa del traumatico contatto con il quartiere di Brancaccio, e con la sua realtà di miseria, di dolore e di morte, con le condizioni di sudditanza e di omertà in cui i residenti sono costretti a vivere.
Il quartiere di Brancaccio era una frontiera scomoda, un territorio a perdere, da lasciare al potere incontrastato dei criminali e dei mafiosi. Ecco perché il quartiere di Brancaccio era una vera e propria missione. Una missione pericolosa e difficile come alcune parti dell'Africa affamata o come alcune zone della violenta America Latina. Per questo mi è capitato in altre occasioni di paragonare l'omicidio di don Puglisi a quello di Monsignor Romero ucciso dai cartelli colombiani della cocaina. Nelle indagini relative all'omicidio di Don Giuseppe Puglisi, scartate, dopo i primi accertamenti, le ipotesi di un delitto d'impeto o latamente occasionale, il motivo si manifestò chiaramente nell'attività evangelica e pastorale e nella aperta contrapposizione di questa attività al regime di terrore, morte e sopraffazione imposto dalla mafia. La chiesa di Brancaccio e la semplicità disarmante di Don Pino erano una spina nel fianco della mafia di quel quartiere che vedeva compromesso il suo primato. Una persona disarmata, non violenta, che usa solo la parola e la cultura per ribellarsi a un sistema di morte. La colpa peggiore di don Pino era quella di aver dato vita al centro "Padre Nostro", situato in un crocevia strategico del quartiere di Brancaccio, a pochi passi dalle abitazioni di molti esponenti latitanti dell'organizzazione, con un continuo andirivieni di persone assolutamente non controllabili. Tra esse potevano nascondersi investigatori e agenti di polizia in un momento storico in cui le stragi e le bombe, esplose in tutta Italia, a Firenze, Roma e Milano facevano intensificare le ricerche dei sospetti per crimini orrendi.

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