Mafia, ora lo Stato dichiari guerra
di Walter Veltroni - 2 febbraio 2013
Caro direttore, occorre che lo Stato italiano entri in guerra. Che notifichi, all'avvio del prossimo Parlamento, una vera e propria dichiarazione di guerra alla mafia, alle mafie.
Lo so, non ci sono ambasciatori e cancellerie a cui consegnare un documento formale. Ma la mafia, le mafie, sanno benissimo lanciare segnali e anche comprenderli. Se la politica, le istituzioni, i cittadini sono uniti (al di là di qualsiasi divisione) i poteri criminali capiranno che la Repubblica fa sul serio.
Le mafie stanno divorando anima e corpo di questo Paese. La immensa disponibilità di denaro che deriva dalle attività illecite - in primo luogo droga, usura, racket - sta consentendo loro una penetrazione nell'economia reale che non ha precedenti, né per dimensione, né per estensione nazionale. Non c'è un pezzo di Paese che si possa considerare al riparo da questa invasione. E chi, per meschino calcolo elettorale, si ostini a negarlo, per il territorio che amministra, o è stupido o è complice. Le mafie si sono insediate a Roma, a Milano, in Emilia, in Liguria. Stanno approfittando della crisi e della difficoltà di reperimento del credito da parte delle imprese per erogare prestiti da usura e poi acquisire le imprese stesse. Così aziende italiane, frutto del lavoro e dell'ingegno di generazioni di italiani, finiscono nelle mani di poteri criminali. È quanto è successo, ad esempio, nella civilissima Padova con una struttura finanziaria della camorra denominata, non per caso, "Aspide" che erogava ad aziende in difficoltà prestiti ad un tasso del 20% mensile. Chi può non vedere che in tutte le città, quartiere per quartiere, sta cambiando la natura del paesaggio commerciale? Spuntano ovunque strane gallerie d'arte, negozi di vestiti nei quali non entra mai nessuno, improbabili pizzerie. Il costo degli affitti e delle vendite dei locali lievita in ragione del fatto che c'è chi è disposto a versare cifre spropositate. E così il commerciante è progressivamente espulso e si insediano, con un complicato giro di prestanome, imprese finte che servono solo a riciclare denaro sporco.
È, per molti versi, un fatto inedito. Le mafie e la recessione: un intreccio che presenta un suo tratto storicamente originale. Le mafie, nella loro strategia di penetrazione, non acquistano solo aziende o locali commerciali. Acquistano anche politici, funzionari, amministratori. Lo fanno con le blandizie - soldi, voti - e con le intimidazioni. E, lo ripeto da anni, non solo in Campania o in Sicilia. Succede a Milano o a Sanremo.
Potremo fare tutte le manovre che vogliamo, nei prossimi anni. Ma se le mafie continueranno a succhiare al nostro Pil una cifra che oscilla attorno ai 130, 150 miliardi di euro sarà come svuotare il mare con il cucchiaino. Potremo fare tutti i progetti di grandi imprese che vogliamo ma se la Salerno-Reggio Calabria è ancora in quello stato pietoso è perché le mafie fanno saltare i cantieri. E non è immaginabile che un paese come il nostro se progetta una grande iniziativa come l'Expo o avvia i lavori di ricostruzione dopo catastrofi naturali debba essere atterrito dalla minaccia del condizionamento mafioso.
Ci sono studi recenti, penso a quello di Transcrime, che dicono che a preoccuparci non deve essere solo la mole di affari che la criminalità muove oggi in Italia, ma che quegli affari si stanno sempre più consolidando e diventano una base sicura su cui le mafie possono costruire sempre di più. O lo studio della Banca d'Italia che ha dimostrato con dati scientifici che la presenza delle mafie abbatte la crescita del Pil di alcune regioni.
L'Italia - con la sua straordinaria capacità e voglia di fare, con la creatività e l'agilità mentali che non ci hanno mai fatto difetto - è costretta a contrastare gli effetti economici e sociali della recessione come un uomo che lotta con una mano legata dietro la schiena.
Chiunque si candidi a governare il Paese, e penso anzitutto al Partito democratico e al centrosinistra, avrà il compito imperativo di liberare quella mano. Sarà una guerra, un lavoro difficile e profondo ma è la condizione preliminare per salvare il Paese.
La guerra, in questi anni, l'hanno fatta i magistrati, le forze dell'ordine e gli amministratori coraggiosi. Ma lo Stato non c'era. Anzi ha cercato, falso in bilancio e limiti alle intercettazioni proposte dal centrodestra, di rendere tutto più difficile. È lo Stato, la politica a dover dichiarare e ingaggiare il conflitto senza quartiere con i poteri criminali. Da ora, rinunciando alle offerte di sostegno a liste o candidati che le mafie fanno in periodi come questi. Perché la mafia non è neutrale, è un pezzo organico del grumo di potere che per decenni le ha garantito coperture politiche e giudiziarie e in cambio ha avuto consenso e talvolta anche attiva partecipazione a disegni di condizionamento della vita pubblica italiana. La mafia, durante tutto il Novecento, non ha destabilizzato nulla. È stato un potente e sanguinario fattore di "stabilizzazione" che è entrato in campo quando le cose stavano per cambiare. Non ci si spiega il carattere inedito e repentino dell'inizio delle stragi, nel fatidico '92, e la loro cessazione, nel '94, se non così.
Per questo penso a una guerra senza quartiere. Non chiacchiere, decisioni. Penso, solo a titolo di esempio, a una serie di provvedimenti normativi che devono essere ai primi posti dell'agenda di governo. Un rafforzamento radicale della legge anticorruzione, regole essenziali come quelle sull'autoriciclaggio, la messa a regime della banca dati unica delle informative antimafia accessibile alla Dna, l'attuazione della "white list" realizzando presso le prefetture elenchi di aziende davvero pulite.
E penso ad una politica che sappia cacciare i portatori di voti facili e sporchi. Non basta la dichiarazione di appartenenza ad un partito, neanche della sinistra, a certificare la propria onestà. Sono le decisioni, i rischi, la linearità dei comportamenti a definire un rappresentante del popolo. Se lo Stato italiano non dichiarerà questa guerra, oggi, la recessione ci consegnerà un Paese irrimediabilmente malato.
Non lo dobbiamo solo a Falcone e Borsellino, che sono morti in trincea, forse per fuoco amico. Lo dobbiamo agli italiani. Liberare quel braccio significa liberare l'Italia e restituirle futuro.
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