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Trattativa Stato-mafia,Mori: ha la consistenza di un castello di carta

Trattativa Stato-mafia,Mori: ha  la consistenza di un castello di carta


Il generale, sette ore di dichiarazioni spontanee: «Lo scompaginamento di Cosa nostra è avvenuto per l'impegno degli uomini delle Istituzioni»

PALERMO - «Visti i continui riferimenti giornalistici e le più recenti ipotesi giudiziarie che riguardano la stagione delle stragi, preciso di avere conosciuto personalmente l'onorevole Nicola Mancino, allora ministro dell'Interno in carica, il 19 luglio 1992, nel corso di una trasmissione televisiva, diretta da Bruno Vespa, connessa alla strage di via D'Amelio avvenuta in quello stesso giorno. Ho rivisto Mancino qualche altra volta nel corso degli anni, ma tra noi non sono mai intercorsi rapporti che andassero oltre quelli strettamente formali. Non ho mai ricevuto da Mancino, nelle diverse funzioni istituzionali da lui rivestite, direttive, richieste o sollecitazioni di qualsiasi tipo, neppure in forma mediata, così pure, ovviamente, dal capo della Polizia dell'epoca, il prefetto Vincenzo Parisi».
L'ARRESTO DI RIINA E I RITARDI - Con queste parole il generale Mario Mori ha ripreso le dichiarazioni spontanee nel processo che lo vede imputato per favoreggiamento aggravato per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, interrotte nella scorsa udienza. «Mancino, ripetutamente, ed anche in questa sede, si e' lamentato del fatto che non lo avrei informato dei miei contatti con Vito Ciancimino e nemmeno della cattura di Salvatore Riina - prosegue Mori - Sull'identità di una sua fonte informativa, la norma consente all'ufficiale di pg di mantenere il segreto, che reputo sia un elemento essenziale per l'efficace conduzione delle operazioni. Non vedo quindi perché un colonnello dei carabinieri, trattandosi di un'attività in corso, avrebbe dovuto parteciparla addirittura al ministro dell'Interno». «Per quanto riguarda poi la notizia della cattura del Riina, la valutazione circa l'opportunità e quindi l'onere d'indirizzare un'informativa ovvero una comunicazione agli organismi istituzionali di vertice, e quindi anche al Ministro dell'Interno, in base al Regolamento dell'Arma dei Carabinieri, spetta esclusivamente al Comando Generale - spiega Mori - A me incombeva l'onere d'informare la gerarchia, cosa che ovviamente feci tempestivamente. Se Mancino riteneva di non essere stato messo al corrente in maniera corretta di fatti interessanti la sua sfera di competenza o di avere ricevuto la notizia dell'arresto del Riina in ritardo, doveva lamentarsene con altri, non certo con il colonnello Mori».
LA POTENZA DI COSA NOSTRA SCEMAVA - «Le potenzialità offensive di Cosa nostra, tra l'arresto di Salvatore Riina, realizzato all'inizio del 1993, e quello di Giuseppe Graviano del gennaio 1994, entrambi eseguiti da reparti dei Carabinieri, erano progressivamente e rapidamente venute meno, in corrispondenza di una sempre più efficace qualità della risposta degli apparati investigativi. Non erano stati quindi i modesti benefici apportati dalle iniziative del ministero della Giustizia nei confronti dei detenuti mafiosi sul 41 bis a fare recedere Cosa nostra dai suoi intenti criminali», aggiunge Mori nelle sue dichiarazioni spontanee. «Per l'attività da me svolta sono stato sempre abituato a considerare i dati di fatto e non le mere ipotesi, anche se a volte queste possono apparire suggestive, di maggiore presa emotiva ed adattarsi meglio a determinati interessi e convincimenti personali - dice Mori - E i fatti allora dicono che lo scompaginamento di Cosa nostra e' avvenuto per l'impegno e la dedizione degli uomini delle Istituzioni, alcuni dei quali hanno pagato di persona questo impegno, e non già per contatti sottobanco o accordi indimostrati ed indimostrabili che, cosi' come presentati anche in questo processo, hanno la fondatezza e l'effettiva consistenza di un castello di carte».
IO E OBINU CORRETTI - «Signori del tribunale, il colonnello Obinu ed io, non accettando a suo tempo la prescrizione maturata per le ipotesi di reato ascritteci, come uomini delle istituzioni abbiamo ritenuto doveroso difenderci davanti al nostro giudice naturale; e l'atteggiamento tenuto dalla nostra difesa in tutto l'arco temporale del dibattimento ritengo lo abbia confermato. Attendiamo quindi serenamente il vostro giudizio, intimamente persuasi, comunque, di avere sempre operato correttamente, non solo nel doveroso rispetto delle leggi, ma anche e soprattutto nell'osservanza delle regole deontologiche poste a base dei nostri convincimenti, della nostre scelte professionali e del nostro status di militari». Con queste parole il generale Mori ha concluso dopo quasi sette ore le dichiarazioni spontanee nel processo che lo vede imputato per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nell'ottobre 1995.

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